Per l’età evolutiva

Psicoterapia per l’età evolutiva

Le regole della psicoterapia infantile vengono strutturate in base all’età del bambino, prevedendo sempre il coinvolgimento della famiglia. L’elemento cruciale da valutare è la comprensione di come il bambino si può esprimere in quella determinata fase dello sviluppo (ad esempio attraverso giochi, disegni, o dialogo verbale). Nel contempo, si considera in che modo viene vissuto il rapporto con i familiari. Questi ultimi sono, infatti, concretamente presenti nella vita del bambino. Nella prima infanzia affettività e autostima sono molto influenzati dal modo in cui i genitori considerano e trattano il figlio; nella terapia cognitivo interpersonale si considera fondamentale che il messaggio terapeutico sia indirizzato, anzitutto, a mettere bambino e genitori in grado di relazionarsi meglio tra loro.
Nel Secondo Centro di terapia cognitivo interpersonale il coinvolgimento dei genitori comincia dalla prima seduta, che viene svolta senza la presenza del bambino: la relazione con i genitori rappresenta la prima chiave di comprensione del mondo in cui il bambino è immerso e dal quale dipende.
Decidere il punto da cui partire (intervento rivolto verso i genitori o prevalentemente verso il bambino) e la modalità della terapia dipende dalla valutazione di quale sia la modalità più utile in base alla ricettività della famiglia.
Gli incontri individuali con il bambino vengono concordati non solo con la famiglia, ma anche con lui, tenendo conto dei suoi impegni extra scolastici. Tali incontri avvengono in uno spazio progettato per favorire l’espressività, consentendo ai bambini più ‘difesi’ di incominciare i colloqui privilegiando il canale verbale e dedicarsi, successivamente, ad attività creative che favoriscano maggiormente il contatto con la sfera emotiva (pittura, cera da modellare, musica, invenzione di storie e fiabe, gioco libero, gioco competitivo). I bambini più attivi dal punto di vista motorio, al contrario, prediligeranno i momenti di gioco e con loro il racconto autobiografico si dipanerà lentamente. Solitamente i bambini sono a conoscenza del problema per cui si trovano in uno studio di psicoterapia e a volte la richiesta nasce proprio da loro; se non sanno perché i genitori li hanno portati da noi sarà opportuno spiegare chi siamo in parole semplici, presentandoci come persone che aiutano i bambini e le famiglie a stare meglio e a capire perché a volte si hanno delle emozioni negative o si fanno delle cose che non si vorrebbero.
Responsabile dell’area di psicoterapia infantile è la Prof.ssa Maria Beatrice Toro, coadiuvata dalla Dott.ssa Claudia Romani.

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Al fine di comprendere il disagio infantile e il suo significato nella nostra epoca, si può partire da quanto lo stile di vita e l’educazione del bambino siano cambiati negli ultimi trent’anni, con un’accelerazione formidabile dovuta alle modificazioni subite dalla struttura familiare e sociale. I bambini di oggi sono immersi entro una caleidoscopica moltitudine di riferimenti relazionali: non solo i genitori, ma i nonni, gli insegnanti, i membri di eventuali ricomposizioni del nucleo familiare originario sottopongono i bambini a diverse modalità di comunicare e a numerosi messaggi, a volte contraddittori e confondenti, con conseguenze importanti sul benessere infantile. A tali messaggi vanno aggiunti, poi, quelli forniti dai media. Dagli anni duemila in poi, i bambini sono stati definiti “nativi digitali” (Prensky, 2001), volendo sottolineare la loro diversa modalità di essere e di comunicare rispetto alle generazioni precedenti e, in particolare, ai genitori.

Il benessere psicologico del bambino viene generalmente associato sia a vari fattori interni al bambino stesso, che può presentare maggiori o minori risorse per affrontare la vita (in termini di elementi temperamentali, emotivi e cognitivi), sia, con altrettanto peso, a fattori esterni, quali il benessere dei genitori e le cure che essi sono in grado di offrirgli, nella qualità dell’ambiente scolastico, interpersonale, sociale e, aggiungerei, culturale.

Alla nascita, ciascun bambino ha già un suo temperamento e delle caratteristiche uniche, che si delineeranno più chiaramente durante la prima infanzia, ovvero in quel periodo che va da zero a tre anni circa, in cui, progressivamente, il bambino interagisce e socializza in modo sempre più sofisticato. Un regolare sviluppo sociale, innestato sul temperamento di base, porrà nel bambino i presupposti interiori della fiducia in se stesso, quale che sia il suo stato di partenza, poiché lo sviluppo relazionale avviene secondo analoghi passaggi in bambini con temperamenti differenti.

Il temperamento del bambino influenza i suoi scambi con l’ambiente e, in particolare, rappresenta una variabile importante che modula ritmi e forme delle prime interazioni relazionali. Anche le modalità di regolazione della relazione di attaccamento avvengono in base all’incontro tra il temperamento e i ritmi del bambino e quelli delle sue figure di attaccamento, ovvero delle persone che gli danno conforto e cura, con le quali il bambino stabilisce un legame speciale, che possiamo definire come primo rapporto d’amore.

È oramai assodato come il bambino, a partire dalle primissime fasi dello sviluppo, sia provvisto sia delle tonalità emotive di base (curiosità, rabbia, colpa, paura, ecc.) che dell’abilità di comunicarle attraverso dei meccanismi espressivi, basati prevalentemente sul riconoscimento facciale e di imitazione, nella relazione con gli altri significativi, quali i genitori. Tali abilità si esprimono, anzitutto, nella relazione di attaccamento, laddove le emozioni negative sono elicitate dalla separazione e da cure intrusive/incoerenti nei tempi e nei modi. Il modo in cui il bambino avverte l’accessibilità dei genitori in risposta alla sua ricerca di contatto e di prossimità influenza il modo in cui il bambino gestisce lo stress separativo organizzando il suo dominio emotivo e la sua capacità di comunicare l’agio e il disagio.

Tra il bambino e il caregiver si realizza una regolazione reciproca delle emozioni e, attraverso una capacità innata di attunement (o misattunement) il piccolo organizza la sua vita psichica.  Queste forme precoci di comunicazione consentono al bambino di sviluppare “l’idea” che la sua vita emozionale possa essere compresa e comunicata gli altri, nell’ambito di relazioni che possono essere fonte di sicurezza e conforto. Così, una buona sintonizzazione affettiva aiuta il bambino a riconoscere i propri stati interiori, i propri sentimenti e sensazioni e condividerli all’interno della relazione. Viceversa, la mancata sintonizzazione può impedire lo sviluppo di un’adeguata capacità di riconoscimento ed espressione dei propri stati interni che saranno, così, disconosciuti come parti di se stesso.

In futuro, queste informazioni gli serviranno per organizzare la sua azione di fronte a intere classi di stimoli similari e, se non intervengono variazioni rilevanti, interiorizzerà queste scene entro “modelli operativi”, ovvero rappresentazioni mentali che servono a orientarsi nella realtà, facendo piani di azione.

E’  dunque nell’incontro tra il sistema di attaccamento del bambino e il sistema di accudimento del genitore che nascono i primi pattern comportamentali  ricorrenti, si apprendono i registri emozionali di base e, anche, l’autostima, l’immagine dell’altro e le capacità empatiche. Quanto detto mette in luce l’importanza dei processi intersoggettivi che mediano l’interdipendenza fra attaccamento e organizzazione del Sé.

Il sistema dell’attaccamento è imperniato su una serie di intense emozioni quali la paura, la rabbia, la tristezza, la disperazione, la percezione di conforto, la sicurezza, la fiducia e la gioia. Situazioni di separazione e di lontananza dal genitore (o quando l’accessibilità dello stesso sia minacciata) possono evocare la paura, che induce segnalazioni atte a richiamare risposte di conforto. Genitori percepiti come non disponibili, oppure carenti di attenzioni e di capacità di accudimento, possono indurre nel bambino manifestazioni di rabbia,  una risorsa che può essere  utilizzata al fine di fronteggiare gli ostacoli percepiti. La consapevolezza di una figura di accudimento strutturalmente poco  reperibile, poi,  può indurre il bambino a provare tristezza come un atto di disinvestimento dalla figura d’attaccamento e l’accettazione della sua perdita. Emozioni come gioia, sicurezza e fiducia, vengono invece attivate al momento del ricongiungimento.

Il legame di attaccamento è un legame affettivo:

  1. Persistente, non transitorio;
  2. Coinvolge una persona specifica, una figura che non è interscambiabile con nessun altro;
  • La relazione è emotivamente significativa;
  1. L’individuo desidera mantenere la prossimità o il contatto con la persona;
  2. L’individuo sente l’angoscia in seguito a una separazione involontaria dalla persona.

Lo sviluppo dell’esperienza dell’attaccamento è riassumibile nelle fasi a seguire:

  1. pre-attaccamento: (da 0 a 3 mesi circa): il bambino si orienta verso la figura umana, senza discriminazione della persona, e produce risposte relativamente indifferenziate.
  2. Fase dell’attaccamento in formazione: (3-8 mesi circa): inizia la formazione di un legame: l’orientamento e i segnali vengono diretti verso una o più persone discriminate: quelle che si occupano del bambino (figura materna, o altro caregiver). Il bambino segnala aggrappandosi, sorridendo, vocalizzando.
  • Fase del mantenimento della vicinanza (dagli 8 mesi circa): aumento significativo della gamma di comportamenti di attaccamento, che interagiscono con l’esplorazione, grazie alla raggiunta capacità di locomozione. Avviene la formazione dei primi schemi rappresentazionali e c’è l’angoscia alla separrazione.
  1. Attaccamento vero e proprio (24 mesi): si organizza un modo specifico di affrontare separazione e riunione alla figura d’attaccamento
  2. Cooperazione per l’organizzazione del comportamento di attaccamento (dai 3 anni circa). Si sviluppa una relazione che consiste nel perseguimento di scopi e obiettivi regolati dai feedback del caregiver, di cui vengono presi in considerazione diversi stati emotivi e comportamenti. Il bambino comincia a sincronizzarsi alla madre, comprende i sentimenti e gli stati mentali che guidano il suo comportamento e si adatta, in parte, alle sue esigenze. Questa capacità stabilisce le basi sulle quali la coppia madre-bambino può costituire un rapporto reciproco più complesso.

Lo sviluppo trasforma gli originari schemi senso motori dell’attaccamento in schemi più complessi, di tipo cognitivo – emotivo. È un passaggio fondamentale, laddove prendono vita quelli che Bowlby ha definito come modelli operativi interni (MOI o IWM, Internal working Models). Sebbene sia derivata dalla prospettiva psicoanalitica, l’idea di modello operativo interno è forse più vicina a quella della teoria cognitivista. Essi sono rappresentazioni mentali che comprendono sia le componenti emozionali che quelle cognitive di ciò che viene vissuto. I modelli operativi interni si costituiscono  gradualmente, a partire dalle esperienze vissute dal bambino con le figure di attaccamento. Nei modelli sono rappresentate sia le caratteristiche proprie delle figure di attaccamento che il tipo di relazione che si è sviluppato con esse,  tenendo conto delle risposte ricevute alle richieste di sicurezza in termini di sensibilità emotiva e responsività ai richiami.  Soprattutto, poi, nei modelli operativi interni viene rappresentata l’immagine di sé, costruita in modo coerente con la tipologia di relazione di attaccamento, ovvero del modo in cui si è percepito di esser stati accuditi.

Esser stati accuditi amorevolmente costituisce, in tale ottica, il presupposto fondamentale per ricavare e interiorizzare una buona immagine di sé, mentre un accudimento trascurante o inadeguato produce nella persona l’idea di valere poco e di non essere amabile. I modelli, dopo esser stati  costruiti sulla base di ripetute esperienze di uno stesso tipo, funzionano continuamente ed in maniera automatica. I modelli operativi interni sono attivi per tutta la vita e tendono a rimanere piuttosto stabili, anche se eventi significativi , positivi o negativi, possono produrre in essi dei cambiamenti. I modelli influiscono sulla formazione del concetto di sé (degno/indegno) e degli altri (disponibili/ostili). Per quanto riguarda l’immagine dell’altro e del mondo esterno in generale, si può dire che  un bambino con attaccamento sicuro ( tipo B) immagazzini un modello operativo dell’altro  come di una persona armoniosa, affidabile e del mondo come un luogo interessante e sufficientemente sicuro; un bambino con attaccamento insicuro, al contrario, può vedere l’altro come rifiutante o ostile, e il mondo come un posto pericoloso, nel quale le persone devono essere trattate con precauzione.

La teoria dell’attaccamento di Bowlby costituisce a oggi il modello teorico più completo e articolato cui far riferimento per comprendere e spiegare i meccanismi che sottendono i processi evolutivi, sia normali sia patologici; tali meccanismi  innescano articolati giochi di retroazioni relazionali che caratterizzano il contesto di crescita dell’individuo e che possono agire, a seconda dei casi, come fattori di rischio o di protezione sul suo sviluppo.

Attraverso un approccio empirico alla classificazione dei problemi infantili, sono stati identificati due cluster di fattori: internalizzanti ed esternalizzanti; tali fattori si associano variamente alle diverse tipologie di attaccamento, laddove l’attaccamento insicuro rappresenta un precursore frequente rispetto al disagio infantile.

I problemi internalizzanti consistono in una serie di difficoltà che si collocano “all’interno” del bambino, nella sua sfera emotiva: si riscontrano un elevato ipercontrollo e una relativa  inibizione comportamentale, pensieri di preoccupazione, con vissuti di paura, ansia, tristezza, malinconia, depressione. Dall’altro lato, quando ci si riferisce ad un bambino con comportamenti manifesti problematici, ci troviamo ad affrontare quelle difficoltà che appartengono alla sfera dei disturbi esternalizzanti. Si tratta di quei disturbi che si contraddistinguono per il fatto che il disagio del bambino o dell’adolescente si riversa verso l’esterno. Essi sono caratterizzati da scarso controllo degli impulsi, iperattività, aggressività, oppositività attiva alle regole, distruttività. La problematicità appare rilevante non solo per il bambino, ma anche per i vari sistemi di cui il bambino fa parte: si riscontra, infatti,  una marcata difficoltà di integrazione nei vari contesti (famiglia, scuola, quartiere). Nel caso dei disturbi internalizzanti, poiché si ha un movimento di ritiro dall’esterno verso il mondo interiore, non è facile cogliere il disagio del bambino, se non nelle sue forme e nelle sue manifestazioni più estreme. Tra di essi rientrano sicuramente la sindrome d’ansia da separazione e le diverse manifestazioni fobiche dell’infanzia, nonché la depressione.

Nel caso dei disturbi esternalizzanti i segnali di disagio sono chiari, provocatori  e costringono gli adulti a farsene carico. Immaginiamo un bambino che riversi all’esterno, attraverso l’oppositività e il rifiuto di stare attento a scuola o fare i compiti, la frustrazione causatagli da un disturbo specifico dell’apprendimento (DSA).  In questo caso, di fronte alla difficoltà e alla frustrazione di non riuscire a svolgere il lavoro scolastico al pari dei compagni, il bambino  reagisce opponendosi e evita, così facendo, di dover prendere contatto con le proprie difficoltà e insuccessi, scaricando la colpa all’esterno, magari sull’insegnante (“ce l’ha con me”) o sui genitori (“preferiscono mio fratello”). Il suo disagio, a differenza che nel caso del disturbo internalizzante, verrà probabilmente preso in considerazione, se non altro dalla scuola, dove un comportamento dirompente pesa sulle attività quotidiane del gruppo classe.

Otre alla dimensione inbizione/esplosione comportamentale, che è la più evidente, per comprendere la psicologia del bambino con disturbi internalizzanti, o esternalizzanti, dobbiamo considerare anche le modalità prevalenti a livello della sfera cognitiva: nei primi si ritrova un pensiero sostanzialmente iperinvestito, ma disfunzionale, mentre nei secondi i processi di pensiero sono scarsi, prevalendo la dimensione dell’agito.

Le modalità espressive del bambino, sia in condizioni di salute psichica che di disagio, e la sua capacità di mentalizzare si declinano in modi assai differenti a seconda dell’età, di modo che le regole e il setting della psicoterapia infantile risultano necessariamente elastiche, tenendo conto di come il bambino si può esprimere in quella determinata fase dello sviluppo e di quanto sia per lui centrale, a seconda del momento evolutivo,  il rapporto con i genitori. I genitori sono, infatti, concretamente presenti nella vita del bambino e ne regolano tempi e modi di vita. Nella prima infanzia i pattern cognitivo affettivi del bambino sono influenzati dal modo in cui i genitori considerano e trattano il figlio; nel modello cognitivo interpersonale si considera fondamentale che il messaggio terapeutico sia indirizzato, anzitutto, a mettere bambino e genitori in grado di relazionarsi meglio tra loro. La “perturbazione strategicamente orientata”, che costituisce il cuore dell’intervento cognitivo interpersonale, può, allora, specialmente nella prima infanzia, essere rivolta prevalentemente ai genitori, in modo da ottenere una loro riorganizzazione affettiva attorno al figlio che produrrà, a sua volta, una maggiore sicurezza nel legame di attaccamento e un cambiamento nell’organizzazione conoscitiva del bambino.

Nel setting il coinvolgimento dei genitori comincia dalla prima seduta, che viene svolta senza la presenza del bambino: la relazione con i genitori rappresenta la prima chiave di accesso al mondo in cui il bambino è immerso e dal quale, a differenza dell’adulto, dipende. Il sistema familiare dà attivamente forma all’organizzazione conoscitiva del bambino e ne mantiene la coerenza. i modelli operativi interni si fondano su tale sistema e le perturbazioni del terapeuta modificano inevitabilmente l’intero sistema, sia che siano rivolte ai genitori o al bambino individualmente. Decidere il punto da cui partire (intervento rivolto verso i genitori o da subito verso il bambino) e la modalità del setting dipende dalla valutazione di quale sia la modalità più utile in base alla ricettività del sistema stesso. A partire dalla fanciullezza (età scolare) il bambino possiede capacità cognitive tali da poter centrare la relazione terapeutica in un setting individuale, laddove egli possa esprimersi, parlare dei suoi timori, emozioni, problemi e trovi nel terapeuta un punto di riferimento non giudicante che facilita nuove percezioni di sé e schemi di interazione positivi che consentono al bambino di esplorare “nuove modalità di essere con l’altro” (Lambruschi, 2004).

Il setting, poi, può variare nelle diverse fasi della psicoterapia, laddove si scelga di effettuare colloqui individuali con il bambino e coinvolgere le figure importanti quando sia necessario o comunque utile per la terapia, allorchè, ad esempio, si voglia facilitare la comunicazione del figlio verso i genitori e utilizzare il setting come luogo facilitante per tale incontro. A volte, invece, i genitori sono inclusi da subito nel setting e solo dopo che si sia raggiunta una buona alleanza terapeutica essi si fideranno di separarsi progressivamente dal figlio, consentendogli di “pensarsi separato” da loro (Lambruschi, ibidem). Gli interventi sulla coppia genitoriale possono esser volti al raggiungimento di un riordinamento della loro esperienza con il figlio, oppure, quando essi non appaiano disponibili a un tale lavoro di elaborazione, possono declinarsi secondo modalità più pedagogiche, fornendo informazioni e permettendo loro di essere più competenti riguardo a temi fondamentali per il figlio.

Gli incontri individuali con il bambino vengono concordati non solo con la famiglia, ma anche con lui, tenendo conto dei suoi impegni extra scolastici. Tali incontri avvengono in uno spazio progettato per favorire la loro espressività, consentendo ai bambini più “difesi” di incominciare i colloqui privilegiando il canale verbale e dedicarsi, successivamente, ad attività creative che favoriscano maggiormente il contatto con la sfera emotiva (pittura, cera da modellare, musica, invenzione di storie e fiabe, gioco libero, gioco competitivo). I bambini più attivi dal punto di vista motorio, al contrario, prediligeranno i momenti di gioco e con loro il racconto autobiografico si dipana lentamente, laddove essi “centellinano” le proprie confidenze e domande esplicite riguardo alle difficoltà che stanno vivendo. Solitamente i bambini sono a conoscenza del problema per cui si trovano in uno studio di psicoterapia e a volte la richiesta nasce proprio da loro; se non sanno perché i genitori li hanno portati da noi sarà opportuno spiegare chi siano in parole semplici, presentandoci come persone che aiutano i bambini e le famiglie a stare meglio e a capire perché a volte si hanno delle emozioni negative o si fanno delle cose che non si vorrebbero.

L’assessment si pone come  finalità quella di rendere esplicite le dinamiche del nucleo familiare e i modelli operativi interni del bambino, indagando la qualità delle sue relazioni e ipotizzando il suo tipo di organizzazione del Sé. Si approfondisce la storia anamnestica del bambino per individuare i momenti di scompenso che lo hanno portato, lungo il suo ciclo di vita, a difficoltà o a specifiche sintomatologie. Nei colloqui con i genitori si possono utilizzare validi strumenti di indagine quali le check list comportamentali (per la raccolta di dati su capacità di rispettare le regole, aggressività, autonomia, cura delle proprie cose, capacità interattiva con i coetanei)  o questionari che indagano l’affettività (emozioni prevalenti, dipendenza dall’adulto, ansia di separazione,  sicurezza, livello di autostima e motivazione alle attività scolastiche ed extra scolastiche). È utile raccogliere la storia del sintomo ed effettuare l’analisi funzionale, cercando di stabilire e condividere con i genitori il fatto che esso non compaia casualmente ma sia preceduto da antecedenti simili (eventi, messaggi, situazioni) e seguito da conseguenti che in qualche modo lo rinforzano (ad es. l’attenzione negativa). È importante dare adeguato rilievo alle sequenze di comportamenti problematici, con un atteggiamento di interesse e non di giudizio: quelle modalità, per quanto disfunzionali, sorgono all’interno del sistema familiare per segnalare un disagio solitamente relativo al legame di attaccamento. Il bambino sperimenta uno stato di insicurezza e trova degli aggiustamenti emotivo comportamentali atti a mantenere la prossimità con il genitore: si verifica, poi, una sorta di cortocircuito, per cui i sintomi permangono anche quando complicano  la vita del bambino. Essi non vengono abbandonati perché il bambino non è in grado di affrontare emozioni ed eventi critici, che producono notevoli discrepanze e sbilanciamenti interiori. L’obiettivo del terapeuta è quello di restituire un senso ai sintomi, stimolando nei genitori una maggiore comprensione degli elementi in gioco e favorendo connessioni significative e nuove elaborazioni, nonché migliori strategie di fronteggia mento delle difficoltà.